venerdì 10 ottobre 2014

DISAVVENTURE IN MATERIA DI TELECOMUNICAZIONI

Capita ancora troppo spesso di incontrare dei consumatori che lamentano dei disservizi da parte di compagnie di telecomunicazioni: mancata portabilità, mancata attivazione (o disattivazione) dei servizi richiesti, disattivazione non preannunciata della linea telefonica, mancata comunicazione di utilizzo anomalo della linea…

Troppi ancora i casi in cui l’utente che si vede recapitare fatture con cifre esorbitanti si sente ripetere dal call center “prima deve pagare e solo poi contestare. E ancora troppi i casi in cui, con contestazione documentata, si verifica la sospensione della linea telefonica, magari di utenze business.

Il primo consiglio è: aprite sempre un RECLAMO SCRITTO e non una segnalazione…

E se non riuscite a vedere soddisfatti i Vostri diritti e magari nemmeno riuscite a risolvere il disservizio contattateci: lo staff della nostra associazione può darvi assistenza ed adeguata consulenza.

Vi ricordate di Davide… lui ha appena incassato i 10mila euro di indennizzo… ed a voi potrebbe succedere la stessa cosa.


PRODOTTI IN USURA E TUTELA DEL CONSUMATORE / UTENTE

Q 

uello appena trascorso è stato un mese importante per la nostra associazione. Abbiamo avuto modo di incontrare molti utenti bancari che avevano sottoscritto dei contratti di finanziamento e mutui che non rispettano la normativa antiusura.

I consulenti e le società che collaborano con il nostro staff hanno avuto modo di incontrare e visionare la documentazione di una moltitudine di utenti bancari: mutui, conto correnti, leasing, finanziamenti chirografari e cessioni del quinto.

Per alcuni di loro la soddisfazione di sentirsi dire che il prodotto era adeguato, per altri la sorpresa, purtroppo amata, di constatare che il loro rapporto non ha rispettato la normativa ed è viziato da usurarietà del credito.

Le storie dei nostri tesserati sono veramente molteplici.

Di alcuni di loro avete letto la storia nei quotidiani locali del quest’ultimo periodo; di altri non abbiamo ancora parlato. Ci sono pensionati, lavoratori e lavoratrici che si trovano imbrigliati in contratti di finanziamento estinguibili con cessione del quinto in usura; piccoli artigiani e piccoli imprenditori ai quali sono stati concessi degli affidamenti che sin dal momento della concessione profumavano di usura; sposi novelli che hanno acquistato la loro prima casa e che hanno scoperto che il loro contratto non rispetta le normative antiusura…

C’è anche Pino, commerciante, che ha intrattenuto rapporti di varia natura con un istituto bancario per oltre un trentennio e che ora, con l’aiuto della nostra associazione e dei consulenti che con noi collaborano, sta lavorando per tutelare i propri diritti e vedersi restituire quanto in trent’anni ha versato anche a suon di garanzia reali e fidejussioni rilasciate per cercare di garantire la liquidità alla normale attività.

C’è anche Rebecca, ex commerciante ora alla ricerca di una collocazione, che per rientrare dei propri fidi ha dovuto chiedere al marito (che lavora con un contratto a tempo determinato) ed alla madre (che vive di un misero reddito da pensione) di avventurarsi in un mutuo fondiario per coprire un affidamento in cui la normativa antiusura non era rispettata.

C’è Denny che ha sottoscritto il leasing per un capannone industriale ed al quale è stata riscontrata un’usura a cinque zeri non decimali.

I costi praticati della vostra banca sono corretti? Per saperlo rivolgetevi alla nostra associazione.

Ricordiamo che l'usura è il reato che commette chi si fa dare o promettere quale corrispettivo di una prestazione di denaro interessi o altri vantaggi usurari, quindi sproporzionati e superiori ai limiti di legge.

L’usura è un fenomeno che in molti casi non riguarda solo la criminalità organizzata

giovedì 9 ottobre 2014

CESSIONI DEL QUINTO - NUOVI SUCCESSI - RESTITUITI 7.000 EURO

Nuovi successi per due nostri tesserati che hanno ottenuto il lodo favorevole dopo che la finanziaria aveva tenacemente negato loro il diritto alla restituzione di 7.000 euro.

La loro storia è come quella già raccontata per tanti altri: dopo aver estinto la cessione del quinto hanno fatto valutare l'operazione di finanziamento e la sua estinzione.
I consulenti e lo staff della nostra associazione hanno riscontrato delle irregolarità, in questi casi, nella fase di estinzione derivanti dalla mancata restituzione di costi sostenuti al momento della stipula del contratto di finanziamento.
Ora con grande soddisfazione hanno consegnato nelle mani del tesserato l'ennesima vittoria.

Se avete estinto una cessione ed una delegazione contattate la nostra associazione. Saremo lieti di combattere al Vostro fianco per far valere tutti i vostri diritti e ricevere le somme che sono di vostra spettanza.

A.E.C.I. FELTRE | ASS. EUROPEA CONSUMATORI INDIPENDENTI FELTRE
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mercoledì 1 ottobre 2014

Contributo di solidarietà all’Inps: prelievo forzoso dalle buste paga

Squilli di trombe per gli 80 euro in busta paga, ma la totale sordina per il contributo di solidarietà che, a differenza dei primi, andrà a ridurre le buste paga degli italiani. Sì, perché da questo mese di settembre diviene efficace una previsione contenuta nella legge Fornero [1] che istituisce il cosiddetto “contributo di solidarietà”: un prelievo forzoso che verrà effettuato sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e andrà a confluire in un fondo dell’Inps. Questo fondo (detto Fondo Residuale) servirà ad assicurare ai lavoratori dipendenti di imprese operanti in settori non coperti da cassa integrazione salariale (nelle imprese con oltre 15 dipendenti), una tutela nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa.

Insomma, buste paga più leggere. E tutto questo in completo silenzio informativo.

A confermare l’operatività della nuova normativa è stata, qualche giorno fa, una apposita circolare dell’Inps [2] che, per chi voglia approfondire, è scaricabile da questo link: “Circolare Inps n. 100 del 2.09.2014”.

Vediamo allora meglio di cosa si tratta e quanto peserà sulle tasche degli italiani.
In pratica per le aziende che non sono coperte dalla cassa integrazione (come ad esempio quelle commerciali fino a 50 dipendenti) arriverà uno strumento di tutela in caso di sospensione dell’attività lavorativa. Tale tutela però avrà un limite temporale più breve rispetto a quello della cig: solo tre mesi (prorogabili in via eccezionale fino a 9).

Quanto peserà il contributo e chi lo pagherà
Il contributo al fondo residuale sarà dovuto in parte dai lavoratori (i quali vedranno solo un voce negativa sul cedolino paga) e in parte dai datori. In particolare, la somma sarà così divisa:
a) un contributo ordinario dello 0,50% della retribuzione mensile imponibile ai fini
previdenziali dei lavoratori dipendenti (esclusi i dirigenti), di cui due terzi a carico del datore di lavoro e un terzo a carico del lavoratore;
Per esempio: su una retribuzione di 1.000 euro mensili, il contributo sarà di 5 euro. Di questi 5 euro, il lavoratore pagherà 1,65 euro mentre il residuo sarà a carico dell’azienda.

b) un contributo addizionale totalmente a carico del datore di lavoro che ricorra alla sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, calcolato in rapporto alle retribuzioni perse nella misura del 3% per le imprese che occupano fino a 50 dipendenti e del 4,50% per le imprese che occupano più di 50 dipendenti.

Al Fondo residuale contribuiscono solo le imprese che impiegano mediamente più di quindici dipendenti (compresi i part-time e i lavoratori intermittenti, conteggiati in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno).

Chi beneficerà del fondo?
Ai lavoratori dipendenti, esclusi i dirigenti, dalle imprese rientranti nel proprio campo di applicazione, che siano interessati da riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, il Fondo riconosce un assegno ordinario, in relazione alle medesime causali previste dalla normativa in materia di cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, con esclusione della cessazione, anche parziale di attività.

La prestazione può essere riconosciuta esclusivamente ai lavoratori dipendenti di imprese che abbiano occupato mediamente più di quindici lavoratori nel semestre precedente la data di inizio delle sospensioni o delle riduzioni dell’orario di lavoro.

A quanto ammonta l’assegno
La misura dell’assegno ordinario è pari all’integrazione salariale, ridotta di un importo pari ai contributi previsti dall’articolo 26 della Legge 28 febbraio 1986, n. 41, con l’applicazione dei massimali previsti dalla cassa integrazione guadagni ordinaria. Tale riduzione rimane nelle disponibilità del Fondo.

Agli interventi e ai trattamenti previsti dal Fondo nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa si applica, per quanto compatibile, la normativa in materia di cassa integrazione guadagni ordinaria.

Ciascun intervento è corrisposto fino a un periodo massimo di tre mesi continuativi, prorogabili trimestralmente, in via eccezionale, fino a un massimo complessivo di nove mesi, da computarsi in un biennio mobile.

(Art. dell'Avv.to GRECO Angelo su www.laleggepertutti.it)

DIVORZIARE ALL'UFFICIO ANAGRAFE O DALL'AVVOCATO. COME SI FA

Vuoi separarti senza spendere troppi soldi o attendere tempi biblici a causa delle lunghe pratiche in tribunale? 
La recentissima riforma della giustizia [1] ha letteralmente rivoluzionato questa procedura, consentendo divorzi e separazioni “fai da te”. Da oggi, infatti, in alternativa al “classico” ricorso in tribunale, esistono due nuovi strumenti che ti consentiranno di gestire in piena autonomia e, soprattutto, rapidità di tempi la separazione o il divorzio: o firmando un accordo allo studio di un avvocato, oppure recandoti in Comune, dall’ufficiale di stato civile il quale provvederà a tutto.

In entrambi i casi, come puoi vedere, non dovrai fare una causa e potrai controllare tutta la procedura in prima persona.

E se sono già separato o divorziato?
Non fa niente. Puoi accedere anche tu a queste nuove procedure se hai necessità di modificare le condizioni di separazione o divorzio già fissate in precedenza dal giudice. Così, per esempio, se è tua intenzione chiedere un’integrazione o una riduzione dell’assegno di mantenimento, potrai utilizzare questa nuova via.


Ma la legge è già entrata in vigore? Perché nessuno ne parla?
In verità, i giornali specializzati ne stanno parlando già da diversi mesi.
La norma che prevede la separazione dall’avvocato è già in vigore e puoi già provvedere da oggi stesso.
Al contrario, per la separazione in Comune dovrai ancora attendere la legge di conversione del decreto legge [1]: in pratica, il Parlamento deve dire “sì” a quanto scritto dal Governo. Per saperlo ci vorranno ancora all’incirca 50 giorni. Dopo, se tutto verrà confermato, potrai andare all’ufficiale di stato civile senza neanche farti accompagnare dal tuo legale di fiducia.

Questa legge opera per tutti?
No. Le due procedure (sia quella allo studio dell’avvocato che quella al Comune) valgono solo per i seguenti casi:

a) per chi decide di separarsi/divorziare consensualmente: in pratica, su tutti gli aspetti (personali e patrimoniali) conseguenti alla rottura della coppia ci deve essere il pieno accordo delle parti. Se, invece, i due hanno dei punti sui quali non hanno trovato un’intesa, dovranno necessariamente recarsi in tribunale e procedere – come sempre si è fatto sino ad oggi – con l’avvocato.
Lo stesso discorso vale per il caso di successiva modifica delle condizioni di separazione/divorzio;

b) per chi non ha figli minorenni o figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap o che non sono autosufficienti dal punto di vista economico; per esempio: i genitori del “bamboccione”, che ancora vive a casa perché non è riuscito a trovare lavoro, non possono utilizzare la riforma; altrettanto dicasi se i figli non hanno raggiunto i 18 anni.

Come funziona la separazione dall’avvocato?
Tutto ciò che devi fare è prendere un appuntamento con l’avvocato che tu e il tuo coniuge (ormai “ex”) avete scelto per seguirvi in questa procedura. In verità potreste farvi seguire ciascuno da un avvocato diverso (questi ultimi, poi, dovranno comunque incontrarsi e procedere congiuntamente): ma non vi è nessuna necessità di duplicare i costi.

A questo punto dovrai chiedere che venga effettuata la cosiddetta negoziazione assistita dall’avvocato.

In pratica, il legale redige una sorta di accordo scritto, in cui le parti si impegnano a cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia. Detto accordo, chiamato appunto “convenzione di negoziazione assistita” deve indicare il termine massimo entro cui l’accordo dovrà essere firmato (la legge prevede non meno di un mese) e l’oggetto della lite (separazione o divorzio o modifica delle condizioni già stabilite).

Quindi firmerete tutti l’accordo e l’avvocato certificherà che le vostre firme sono autentiche, proprio come avviene da un notaio.

Sarà poi il legale a doversi preoccupare di tutto il resto, ossia di far annotare l’accordo negli atti di stato civile. A tal fine, l’avvocato deve trasmettere il documento, entro massimo 10 giorni, all’ufficiale di stato civile del Comune nel quale il matrimonio fu iscritto o trascritto, per l’aggiornamento dei registri. Se si dimentica di inviare tale comunicazione, per lui scattano sanzioni salatissime (da 5 a 50 mila euro).

A questo punto, la convenzione avrà lo stesso valore di una sentenza del giudice.

Se vuoi vedere un fac simile dell’accordo di separazione che l’avvocato potrebbe farti firmare, clicca qui.

Ma devo pagare qualcosa all’avvocato o è gratis?
Dovrai certamente pagare l’onorario all’avvocato. Né esistono parcelle prestabilite dalla legge, per cui ogni studio sarà libero di determinare il proprio compenso. Meglio, quindi, che ti faccia consegnare un preventivo, anche perché la concorrenza è enorme e, in caso di esosità del corrispettivo, trovare condizioni migliori non sarà difficile. Peraltro, puoi sempre provvedere con la via alternativa: quella dell’ufficiale di stato civile che, invece, è gratuita.

Se invece volessi andare direttamente all’anagrafe senza l’avvocato?
Nulla di più facile. Non appena il decreto legge sarà convertito in legge (se tutto va bene, entro circa 50 giorni), chiunque potrà separarsi, divorziare o modificare le precedenti condizioni di separazione o divorzio rivolgendosi direttamente all’ufficiale di stato civile del Comune di Residenza di uno dei due coniugi o del Comune presso cui è stato iscritto o trascritto l’atto di patrimonio.

La procedura è estremamente facile. Tutto ciò che devi fare è andare in Comune, chiedere l’appuntamento con l’ufficiale di stato civile il quale riceverà te e il tuo (ex) coniuge e vi inviterà a fare la dichiarazione con cui vi volete separare o divorziare o modificare le condizioni di separazione/divorzio precedenti. Quindi vi farà compilare un atto e ve lo farà sottoscrivere.

Si tratta di una procedura superveloce per dirsi definitivamente addio. Ancora non possiamo dire se ci saranno bolli o diritti da pagare, ma certamente sarà quasi completamente gratuita, a differenza della procedura presso lo studio dell’avvocato.

Anche in questo caso, l’atto dell’ufficiale di stato civile avrà lo stesso valore di una sentenza del giudice. Inoltre gli effetti scatteranno immediatamente dalla data dell’atto contenente l’intesa raggiunta dalla coppia. E da questo giorno, in caso di separazione, decorreranno anche i tre anni necessari a divorziare.

Attenzione: questa strada è preclusa (non solo se ci sono figli minori, o maggiorenni con handicap, incapaci o non autosufficienti, ma anche) nel caso in cui i coniugi debbano formalizzare un accordo di dare-avere, cioè trasferire, per esempio, all’uno o all’altro, la proprietà di un’auto cointestata, di un conto corrente, della mobilia o della casa familiare. In questi casi, non è possibile utilizzare la procedura in Comune e la scelta rimane o quella dell’avvocato o la via tradizionale del tribunale.

Ma questo vuol dire che esiste già il divorzio breve?
Affatto. Il tempo che deve passare tra la separazione e il divorzio resta sempre di tre anni. Solo dopo tale lasso di tempo la coppia si può divorziare. Ma non disperare: il Parlamento ha promesso di approvare la legge sul divorzio breve (che prevede di ridurre l’attesa a 12 mesi per le separazioni giudiziali e a sei mesi per quelle consensuali, a prescindere dall’esistenza di figli).

[1] DL n. 132/2014.

(fonte: www.laleggepertutti.it)

domenica 28 settembre 2014

Società di recupero crediti pretendono debiti scaduti: l’Agcm interviene

Non è solo una leggenda metropolitana: alcune società di recupero crediti pretendono il pagamento di obbligazioni ormai prescritte e lo fanno, con pratiche aggressive e scorrette, inviando sms, email, raccomandate a.r., ma soprattutto con telefonate martellanti

Lo scopo è quello di ottenere il pagamento anche a fronte di crediti infondati o prescritti, minacciando l’intervento di azioni legali anche per poche centinaia di euro. In alcuni di questi casi, la comunicazione preannuncia la visita – a casa o sul luogo di lavoro – di un funzionario della società per sollecitare una composizione bonaria del debito. Il debitore, per evitare “problemi legali”, è portato a pagare, specie quando gli importi sono bassi. Ma alcuni di questi si sono rivolti alle autorità.

È così intervenuta l’Autorità Garante per il mercato e la concorrenza (Agcm) che, con un provvedimento dello scorso 19 marzo, ha inibito ogni attività nei confronti di due di queste ditte specializzate nel bersagliare i debitori.
 Si tratta della Ge.Ri. Gestione Rischi S.r.l. e della Elliot S.r.l., che, dai primi mesi del 2014, avrebbero contattato una larga fetta di consumatori per conto di diversi committenti. 

Così è molto probabile che i debitori, pur non conoscendo i nomi di tali società di recupero, siano stati comunque contattati dai loro operatori. Le fetta di vittime, insomma, è ampia e trasversale. 

In alcuni casi, i consumatori sono stati invitati a chiamare numerazioni a pagamento “per eventuali comunicazioni” o per “verifiche amministrative”, con un costo della telefonata piuttosto elevato (numerazione che, ora, è stata prontamente disattivata). Il settore del recupero crediti è particolarmente delicato, prestandosi a numerosi abusi da parte degli operatori. 

L’Agcm ha già adottato svariati provvedimenti sanzionatori contro pratiche scorrette ai danni dei consumatori per un totale di 600 mila euro di multe

Da ultimo, sono state individuate alcune società di recupero che erano solite inviare atti di citazione infondati (presso tribunali incompetenti per territorio) per cause minacciate ma mai iscritte a ruolo, solo al fine di “stimolare” il pagamento dei debitori (leggi l’articolo “Società di recupero crediti sanzionate: atti di citazione falsi”). 

Il consiglio ai consumatori è, dunque, quello di far sempre controllare, a un avvocato, le eventuali lettere di diffida ricevute. 

In ogni caso, ricordate che quando una società di recupero crediti eserciti indebite pressioni su di voi (per esempio: telefonando fuori dagli orari consentiti, fornendo comunicazioni riservate a terzi, chiedendo il pagamento di debiti scaduti, telefonando con frequenza superiore al dovuto, minacciando di azioni giudiziarie ed esecutive invece giuridicamente impossibili) potete farne denuncia all’Autorità Garante per il Mercato.

(fonte: www.laleggepertutti.it)

Come tutelare il conto corrente dal pignoramento: 5 consigli pratici

Dati alla mano, sono ormai pochi – pochissimi – gli italiani che non hanno un conto corrente personale. Anche in favore dei minori d’età si aprono spesso depositi postali o bancari: è finita l’era degli investimenti in sterline d’oro o in oggetti preziosi (sul presunto valore che gli stessi potrebbero conservare nel tempo e che, invece, molto spesso ha fatto registrare dei flop clamorosi, come il mercato delle opere d’arte) .

Il denaro è anche la ricchezza mobile più facilmente liquidabile in momenti di crisi come questo. Dunque, non stiamo a discutere: salvo il fatto che il materasso è stato sostituito dalla banca, per il resto il deposito resta l’àncora più sicura per il risparmiatore.

Tuttavia il conto corrente presta il fianco a diversi problemi. Il fisco, innanzitutto: che attraverso un monitoraggio quotidiano (reso possibile dall’Anagrafe tributaria e dall’Anagrafe dei conti) è in grado di sapere dove abbiamo il deposito, qual è il suo saldo e quali sono le movimentazioni in entrata e uscita. A non essere in grado di giustificare prelievi e versamenti si rischia l’imputazione degli stessi a ricavi in nero (evasione fiscale). Con conseguente applicazione di esose tasse e sanzioni. Chi ha subìto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate ne sa qualcosa.

Non è tutto. Il peggio è che il conto corrente è trasparente anche ai creditori. Ad Equitalia soprattutto, che può consultare le predette banche dati (le due Anagrafi) per avere un’idea di dove pignorare. Ma anche le banche ne sanno quanto una intelligence. E per i privati c’è sempre la carta delle agenzie investigative che qualcosa dal cilindro la tirano sempre fuori.

Una volta “scoperto”, il conto corrente è facilmente aggredibile con il cosiddetto pignoramento presso terzi, proprio come un’auto lasciata con le chiavi attaccate sul cruscotto.

Esistono degli espedienti che consentono di “salvare il salvabile” ed evitare, così, di perdere davvero tutto. Ovviamente questo articolo non è un’incitazione a frodare i creditori né tantomeno un invito a non pagare i debiti. Al di là, infatti, del titolo puramente provocatorio (poiché, alla fine, di persone che danno “consigli” su come frodare i creditori ce ne sono a bizzeffe), abbiamo piuttosto deciso di tracciare uno spaccato, a titolo informativo, dei “trucchetti” (formalmente leciti) usati spesso dagli italiani per poter sfuggire alle grinfie di Equitalia o di qualche banca.

Ed allora, vediamo cosa la pratica quotidiana ha registrato in questi anni.

1 | Chiedi l’apertura di credito e lascia il conto in rosso ma nei limiti del fido

Un conto in cui non c’è niente non può essere pignorato (questo è ovvio). Ma non può neanche essere utilizzato dal titolare. C’è però una via di mezzo che consente di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Con il contratto di apertura di credito (cosiddetto “fido”), il correntista ottiene dalla banca la possibilità di prelevare dal proprio conto, non solo le somme che vi ha depositato, ma anche una somma ulteriore che gli viene prestata di volta in volta dall’istituto di credito. In tal modo, il saldo resta formalmente “negativo”, ma è un debito autorizzato in anticipo dalla banca. L’importante è non sforare il limite concordato in contratto.

Per esempio: se il correntista ha un conto con una provvista di cinquecento euro e un fido di mille, può prelevare dal conto tutto ciò che vi ha depositato (500 euro, appunto) e, oltre a ciò, altre mille euro. Se non supera questo limite la banca non gli chiederà di rientrare nel debito (almeno finché dura il fido).

Ogni successivo versamento che il correntista riceverà sul conto andrà a ripristinare prima il fido scoperto con la banca e poi, eventualmente, la normale provvista, portando il saldo in “positivo”.

Dunque, se arriva un pignoramento in banca, il creditore non troverà alcunché da “bloccare”, nonostante il correntista abbia fino ad allora utilizzato liberamente il conto.

I problemi di questo sistema sono due:
a) normalmente l’apertura di credito viene concessa a chi ha un’attività commerciale o professionale o, comunque, offre idonee garanzie di solvibilità (il fido, infatti, è un prestito a tutti gli effetti);
b) qualora dovesse intervenire un pignoramento, non si potrebbe più utilizzare il fido, cosicché il conto sarebbe di fatto definitivamente bloccato.

2 | Preleva tutti i giorni dal conto

Nulla vieta di prelevare i soldi dal conto corrente – per esempio, quelli che vengono versati mensilmente dal datore di lavoro per lo stipendio o dall’Inps per la pensione – e poi depositarli in un altro conto, intestato questa volta a un familiare. In tal modo, il primo conto sarà sempre a saldo “0” e il pignoramento non troverà consistenze da pignorare.

Dall’altro lato, il secondo conto non potrà mai essere pignorato perché formalmente intestato a un altro soggetto.

I problemi di questo sistema due:
a) è sempre necessario redigere e firmare una scrittura privata (meglio se registrata) con il soggetto a cui è intestato il conto “beneficiario” dei versamenti: e ciò sia per evitare problemi con il fisco (che potrebbe chiedere al familiare da dove provengano tali redditi), sia per escludere che quest’ultimo, un giorno, rivendichi la proprietà delle somme;

b) portare a “0” il conto corrente non salverà i successivi versamenti del datore di lavoro o della pensione. Questi, infatti, verranno “bloccati” in automatico dalla banca non appena arriverà il pignoramento, in una misura pari alla somma pignorata (ossia il debito, le spese e gli interessi aumentati della metà: per esempio, per un debito complessivo di 500 euro si può pignorare il conto corrente per 750 euro, ossia 500 + ½ di 500).

3 | Cointesta il conto corrente con un familiare

Il conto corrente cointestato non può essere pignorato per intero, ma nei limiti del 50%. E questo è il primo indiscutibile vantaggio.

Inoltre, nel caso di conto cointestato, Equitalia non può attivarsi con la procedura “speciale” che le consente di bloccare il 100% conto senza passare dal tribunale e, quindi, senza l’udienza di assegnazione delle somme. Infatti, il conto bancario o postale cointestato rientra tra i cosiddetti “beni comuni indivisi” la cui espropriazione può avvenire solo davanti a un giudice il quale è tenuto a controllare la regolarità delle operazioni di divisione.

La diversità di disciplina si giustifica per il fatto che, se Equitalia procedesse secondo la normale riscossione esattoriale, finirebbe per pignorare l’intero conto, il cui 50%, però, appartiene a un soggetto diverso, che non è debitore.

Al contrario Equitalia deve provvedere secondo le norme del codice di procedura civile valide per tutti i pignoramenti presso terzi: ossia con citazione a un’udienza davanti al tribunale. La banca, prima dell’udienza, invierà una lettera al creditore in cui gli indicherà le somme presenti in conto.

A questo punto solo dopo la divisione del bene comune, ossia il conto corrente, il giudice potrà autorizzare l’assegnazione del 50% del conto (o della somma pignorata).

La Cassazione inoltre ha avuto più volte modo di chiarire che [1] nel conto corrente bancario cointestato a più persone, le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali – cioè al 50% – se non risulta diversamente.

4 | Apri un conto di riserva ma con un’altra banca

C’è ancora una via di salvezza. Avere un secondo conto consente, qualora intervenga un pignoramento su quello principale, di far affluire tutti i successivi pagamenti in quest’ultimo deposito, lasciando di fatto all’asciutto quello che è stato bloccato (meglio se, nel frattempo, è usata la precauzione numero 2).

È importante che il conto di emergenza sia instaurato con una seconda banca: infatti il pignoramento del conto viene notificato alla banca come soggetto unitario, invitandola a bloccare le somme presenti sul conto, qualsiasi esso sia, quindi ogni somma di denaro, crediti, corrispettivi, trattenute, conti correnti, depositi azionari ed obbligazioni, titoli di Stato e qualsivoglia altro bene fruttifero e non, intestato al debitore, fino alla concorrenza del credito pignorato.

5 | Dimostra che sul conto depositi solo lo stipendio o la pensione

Il tema è delicato e presuppone una premessa che ormai è a tutti nota. Con l’obbligo, imposto dalla legge, di accreditare le pensioni superiori a mille euro in un conto corrente, il creditore può arrivare a pignorare ben oltre il limite di un quinto (imposto dal codice civile): e ciò perché, secondo la giurisprudenza, una volta che le somme sono depositate in banca, confondendosi con gli altri risparmi e ricavi, possono essere pignorate al 100%.

Lo stesso discorso dicasi per gli stipendi, che ormai vanno pagati sempre con strumenti tracciabili e, quindi, di norma con accredito sul conto.

Per evitare, allora, che il creditore – massimamente Equitalia, che sa bene dove depositiamo i soldi – blocchi tutto lo stipendio (perché depositato in conto) e non solo il quinto (come invece dovrebbe essere), si deve evitare di movimentare il conto corrente con versamenti diversi da quelli della pensione o dello stipendio. Stando infatti a una sentenza del tribunale di Savona, si può impedire che Equitalia – o qualsiasi altro creditore – pignori tutto il conto corrente del pensionato o del dipendente qualora questi riesca a dimostrare al giudice che, all’attivo del conto, vi confluiscono solo la pensione o lo stipendio. In tal caso, è possibile far applicare la regola generale in base alla quale la pensione o lo stipendio non possono essere pignorati fino al minimo vitale (525,89 euro) e, per la residua parte, solo nei limiti di un quinto.


[1] Cass. sent. n. 4327 del 29.04.1999; Cass. sent. n. 8758/1993.

(fonte: www.laleggepertutti.it)

PHISHING: POSTE CONDANNATE PER MISURE DI SICUREZZA NON ADEGUATE

Il Tribunale di Firenze, con una sentenza dello scorso 20 maggio 2014, ha riconosciuto il diritto di Maria (ndf) alla restituzione della somma sottratta dal Suo conto corrente domiciliato presso Poste Italiane SpA da un terzo non conosciuto.

La storia è semplice: Maria torna da un viaggio e scopre che dal suo conto corrente (durante il suo viaggio) è stata prelevata una somma di poco inferiore a 6.000 euro.
Allarmata sporge regolare denuncia per frode informatica certa di non aver mai fornito a terzi le credenziali di accesso al proprio profilo on line della banca.

Il Tribunale, dopo circa tre anni, si pronuncia a pieno favore dell'utente bancaria e condanna Poste Italiane SpA ad accreditare l'importo, oltre agli interessi ed alla rivalutazione monetaria e a sopperire alle spese legali e del consulente tecnico nominato dal giudice per gli accertamenti informatici del caso.

Siete in tanti ad essere vittime di frodi simili a quella descritta.
In molti casi si legge, anche in quotidiani locali e nazionali, che la banca cerca stragiudizialmente di chiudere il contenzioso con il riaccredito di metà della somma sottratta.

Senza entrare nei specifici casi il consiglio della nostra associazione è: FATEVI AIUTARE DAL NOSTRO STAFF e CONTATTATECI

A.E.C.I. FELTRE
Associazione Europea Consumatori Indipendenti
via Boscariz 3b - 32032 FELTRE
Fisso 0439 3000 30 - mobile 347 7421260
feltre@euroconsumatori.eu

Avete il diritto della restituzione della piena somma sottratta, maggiorata di interessi e di rivalutazione.




giovedì 25 settembre 2014

Recupero crediti: cosa può fare la finanziaria se non ho nulla

Il credito derivante da un finanziamento si prescrive in 10 anni, salvo ovviamente che, nel corso di suddetto periodo, siano state spedite, all’indirizzo del debitore, lettere interruttive della prescrizione (ossia diffide di pagamento). Queste ultime devono essere state spedite con raccomandate a.r., poiché la posta semplice, non garantendo la prova della ricezione, non vale a interrompere la prescrizione. Anche un eventuale atto giudiziario (come un ricorso per decreto ingiuntivo, un atto di citazione o un atto di precetto) è sufficiente a interrompere la prescrizione. L’interruzione della prescrizione (conseguente a una diffida o alla notifica di un atto giudiziario) ha l’effetto di far ricominciare da capo il calcolo dei termini della prescrizione.

Per esempio: se il credito è sorto nel 2000 e Lei ha ricevuto, nel 2005, una richiesta di pagamento con raccomandata a.r., la prescrizione del diritto non maturerà nel 2010, ma nel 2015.

Pertanto, per verificare se il creditore abbia o meno ancora diritto al recupero del credito sarebbe opportuno sapere in che data doveva essere restituito il finanziamento (è, infatti, da tale momento che cominciano a decorrere i 10 anni) e se, in tale periodo, Le sono stati notificati atti interruttivi della prescrizione.

Fatta questa opportuna precisazione, e fermo restando che il codice civile impone al debitore di adempiere alle obbligazioni contratte, è anche vero che, così come dicevano i latini, “nemo ad impossibilia tenetur” ossia: “nessuno può essere tenuto ad adempiere ad una obbligazione se non ha le possibilità economiche per farlo”. In altre parole, l’unica via che il creditore ha per recuperare il proprio denaro è quello di aggredire il patrimonio del debitore attraverso il pignoramento.

Vien da sé che se il debitore non ha un patrimonio o redditi, anche il pignoramento non sortirà risultati utili. La conseguenza – in termini pratici – è che, molto probabilmente, il creditore – dopo qualche tentativo risultato infruttuoso – rinuncerà al proprio credito (nessuna società – neanche una banca – ha soldi da perdere in procedure esecutive che non danno risultati).

Per quanto riguarda le Sue consistenze patrimoniali, è bene avvisarLa che qualsiasi reddito da lavoro dipendente può essere pignorato, ma nella misura massima di un quinto, ivi compreso quanto da Lei percepito, sebbene saltuariamente.

È pignorabile anche l’eventuale conto corrente nella sua interezza, ma in misura non superiore all’importo del debito contratto, a cui vanno aggiunte le spese legali e gli interessi. Il pignoramento potrebbe essere anche immobiliare (qualora Lei dovesse risultare titolare di immobili).

In ultimo – lo diciamo solo per completezza di consulenza, ma pur sempre augurandoLe lunga vita – qualora Lei dovesse decedere, i Suoi debiti non prescritti passerebbero automaticamente agli eredi, i quali ne risponderebbero integralmente con il proprio patrimonio (oppure, in caso di “accettazione dell’eredità con beneficio di inventario”, nei limiti del valore di quanto ereditato).

In estrema sintesi, la posizione di un nullatenente è – paradossalmente – più “favorevole” rispetto a chi detiene redditi, poiché è molto probabile che, nei Suoi confronti, alle continue insistenze dei call center di recupero crediti, non facciano seguito poi effettive azioni esecutive o giudiziarie.

Il consiglio, comunque, fermo restando il rischio del pignoramento di un quinto dello stipendio, è quello di scrivere sia alla società di recupero crediti (l’ultima che Le ha chiamato) sia, soprattutto, al creditore, rappresentando la Sua situazione patrimoniale ed economica (eventualmente allegando documentazione utile a provare quanto sopra) e invitando entrambi a desistere da ogni azione, poiché altrimenti risulterebbe solo un inutile spreco di tempo e di risorse economiche.

(www.laleggepertutti.it)

Se l’assicurato si costituisce in causa l’assicurazione gli paga le spese legali

Hai avuto un sinistro stradale e l’altro conducente danneggiato – che nel frattempo si è rivolto alla propria assicurazione per avere il risarcimento senza però ottenere soddisfazione – ti ha citato in causa? Non devi preoccuparti per due ragioni: la prima è che, comunque, quella citazione è un “atto dovuto” (la legge, infatti, prescrive che la causa si debba fare in presenza, non solo dell’assicurazione, ma anche del proprietario del mezzo); la seconda è che, se decidi di partecipare al giudizio (se proprio vuoi far sentire “la tua”), le spese processuali ti saranno rimborsate dall’assicurazione.

È questa la sintesi di una recente sentenza della Cassazione [1].

Secondo la Suprema Corte, infatti, in materia di responsabilità civile rc auto, la costituzione in causa dell’assicurato, poiché effettuata (anche) nell’interesse dell’assicuratore (il quale, in definitiva, è colui che dovrà pagare), comporta che l’assicurazione sopporti le spese legali sostenute dall’assicurato nei limiti di un quarto della somma assicurata (cosiddetto massimale) [2].
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Ricordiamo infatti che lo scopo dell’assicurazione obbligatoria rc auto è di mantenere indenne l’assicurato dall’obbligo di risarcire i danni subiti da terzi per il caso di responsabilità alla guida. Per queste ragioni, obbligo della compagnia assicuratrice è di manlevare l’assicurato di qualsiasi spesa da ciò derivante, ivi comprese i costi da questi sostenuti per difendersi in giudizio.

Che significa in pratica? Mettiamo che Tizio, danneggiato da un incidente stradale, dopo aver chiesto alla propria compagnia il risarcimento ed essersi visto opporre un secco rifiuto, inizi una causa contro la compagnia stessa, citando – così impone la legge – anche Caio, proprietario del mezzo responsabile. Il giudice, al termine del giudizio, emette la sentenza in cui condanna l’assicurazione a risarcire Tizio e, insieme, ordina a quest’ultima e, insieme, a Caio di pagare 1000 euro ciascuno a Tizio come rimborso delle spese legali da quest’ultimo sostenute. Ebbene, Caio potrà chiedere alla propria assicurazione di pagare per lui tali spese processuali, poiché anche questo è un effetto della polizza rc auto contratta annualmente dagli assicurati (ed obbligatoria per legge). Tale responsabilità dell’assicuratore trova il solo limite di un quarto del massimale assicurato.

Non solo! Anche nel caso in cui il giudizio si concluda senza riconoscimento del danno (nell’esempio di prima, qualora Tizio non vinca la causa) l’assicuratore risulta comunque tenuto a sopportare le spese di lite sostenute da proprio assicurato (Caio) per pagare il proprio avvocato.

A tale proposito, i giudici evidenziano come la costituzione dell’assicurato in giudizio sia tesa a coadiuvare l’azione difensiva della propria compagnia chiamata in causa, con il fine di procedere all’accertamento dell’obbligo d’indennizzo.

[1] Cass. sent. n. 19176/14 dell’11.09.2014. Cfr. anche Cass. sent. n. 5300/2008 e Cass. Civ. sent. n. 2227/1977.
[2] Art. 1917 cod. civ.

(fonti: www.laleggepertutti.it)

Equitalia: preavviso obbligato prima di ipoteca, fermo o altri atti

Una sentenza davvero importante quella uscita qualche giorno fa dal massimo consesso della Corte di Cassazione [1]. Le Sezioni Unite, infatti, ponendo fine a un annoso dibattito, hanno stabilito che, anche in assenza di una norma di legge specifica, sussiste sempre l’obbligo per Equitalia o qualsiasi altro organo dell’amministrazione finanziaria di inviare al contribuente un previo avviso prima di notificargli qualsiasi atto di riscossione che possa pregiudicare i suoi diritti o compromettere i suoi beni: preavviso che avrà quindi la funzione di mettere il destinatario nella condizione di regolarizzarsi subito (evitando maggiori danni) oppure (in caso di attività illegittima) ricorrere al giudice per tempo.

Insomma, non c’è bisogno di andare a cercare tra leggi e leggine, commi, testi unici, decreti, interpretazioni autentiche o sentenze dei tribunali: se anche non c’è nulla che stabilisca l’obbligo del previo avviso, quest’ultimo si argomenta dai principi generali del nostro ordinamento e, in particolare, dalle norme dello Statuto del contribuente e dalla legge sul procedimento amministrativo [2]: tali principi, infatti, prevedono un obbligo generalizzato di comunicazione dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari.

Sul piano pratico, questo comporta che Equitalia deve – e, soprattutto, “doveva” anche prima delle recenti e più garantistiche norme di riforma sulla riscossione esattoriale [3] – comunicare in anticipo al contribuente l’imminente iscrizione di ipoteca. Stesso discorso per il fermo amministrativo.

Insomma, cercate bene nei vostri cassetti, tra i faldoni e negli archivi: perché se avete una procedura in corso, un’espropriazione anche se avviata ormai da anni o il fermo dell’auto, e non trovate alcun avviso preventivo notificatovi prima della misura stessa, ma solo la lettera con cui Equitalia vi comunica che è stato già iscritto il fermo o l’ipoteca (quando, insomma, già è troppo tardi) potete ricorrere al giudice citando la sentenza della Cassazione di giovedì scorso [1].

In una fattispecie riferita solo all’ipoteca (ma che, in via estensiva, può applicarsi a qualsiasi altro atto limitativo dei diritti del contribuente), la Suprema Corte ha stabilito che, anche nel regime antecedente l’entrata in vigore del Decreto Sviluppo (che ha esplicitato l’obbligo del previo avviso di iscrizione del peso sulla casa [3]), l’amministrazione, prima di iscrivere ipoteca, deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine di almeno 30 giorni perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto.

In passato, la stessa Cassazione [4] si era espressa in senso diametralmente opposto: ossia che l’ipoteca [5] può essere iscritta senza la previa notifica dell’intimazione ad adempiere (visto che l’iscrizione ipotecaria non può essere considerata già una espropriazione forzata, ma solo una garanzia di prelazione per il creditore).

Ancora la Corte aveva anche affermato che se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica di un avviso contenente l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni, ma il previo avviso non è necessario per procedere all’iscrizione ipotecaria.

Il cambiamento e le conseguenze

Insomma, nulla faceva pensare che i giudici sarebbero giunti all’approdo recente: un’interpretazione che ha sostanzialmente cambiato le carte in tavola. Le ha cambiate soprattutto per tutte quelle procedure di espropriazione della casa in corso, anche se già all’asta pubblica, che si erano basate sulle vecchie regole e le passate interpretazioni. Così il rischio di una “valanga” di ricorsi, a travolgere i pignoramenti immobiliari di Equitalia, è dietro l’angolo.

Ricordiamo peraltro che l’ormai famoso Decreto del Fare ha cambiato radicalmente le regole sull’espropriazione della prima casa da parte dell’Agente per la riscossione. Per non dilungarci in questo articolo, con riferimento alle nuove regole rinviamo all’articolo: “Pignoramenti: prima casa no, ma il rischio ipoteca resta” e “Ipoteca di Equitalia: da quale cifra scatta?”.

In conclusione, stante l’obbligo di comunicazione al contribuente, l’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla stessa deve ritenersi nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale” tra amministrazione e contribuente, mediante la preventiva comunicazione a quest’ultimo della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo. Al riguardo, però, le Sezioni Unite non mancando di rilevare che, in ragione della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità. In altre parole, è sempre necessario “entrare” in tribunale, coinvolgere un giudice e cominciare una causa. La cancellazione, infatti, dell’ipoteca non potrà essere ottenuta facilmente con “le buone”.

Il confronto col fermo amministrativo dell’auto

Le Sezioni Unite si sono spinte oltre, non limitando il discorso solo all’ipoteca. Al contrario hanno rilevato la sostanziale equiparabilità della situazione normativa dell’iscrizione di ipoteca a quella del fermo amministrativo di beni mobili registrati [6].

E, come per il preavviso di fermo, anche il preavviso di ipoteca deve ritenersi un atto impugnabile in modo autonomo (leggi: “Equitalia: preavviso di fermo impugnabile”).

Nessun dubbio, peraltro, vi è ormai che anche la stessa successiva comunicazione di iscrizione di ipoteca, come quella del fermo, deve ritenersi un atto impugnabile in modo autonomo.



[1] Cass. S.U. sent. n. 19667/14 del 18.09.2014.
[2] Art. 21 bis L. 241/1990.
[3] Comma 2-bis dell’art. 77, d.P.R., introdotto con d.l. n. 70 del 2011, c.d. Decreto Sviluppo.
[4] Cass. sent. n. 10234/2012.
[5] Di cui all’art. 50, comma 2, d.p.r. n. 602/1973, prescritta per il caso che l’espropriazione forzata non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento.
[6] Di cui all’art. 86, d.p.r. n. 602/1973.

(fonte: www.laleggepertutti.it - articolo di redazione)