domenica 28 settembre 2014

Società di recupero crediti pretendono debiti scaduti: l’Agcm interviene

Non è solo una leggenda metropolitana: alcune società di recupero crediti pretendono il pagamento di obbligazioni ormai prescritte e lo fanno, con pratiche aggressive e scorrette, inviando sms, email, raccomandate a.r., ma soprattutto con telefonate martellanti

Lo scopo è quello di ottenere il pagamento anche a fronte di crediti infondati o prescritti, minacciando l’intervento di azioni legali anche per poche centinaia di euro. In alcuni di questi casi, la comunicazione preannuncia la visita – a casa o sul luogo di lavoro – di un funzionario della società per sollecitare una composizione bonaria del debito. Il debitore, per evitare “problemi legali”, è portato a pagare, specie quando gli importi sono bassi. Ma alcuni di questi si sono rivolti alle autorità.

È così intervenuta l’Autorità Garante per il mercato e la concorrenza (Agcm) che, con un provvedimento dello scorso 19 marzo, ha inibito ogni attività nei confronti di due di queste ditte specializzate nel bersagliare i debitori.
 Si tratta della Ge.Ri. Gestione Rischi S.r.l. e della Elliot S.r.l., che, dai primi mesi del 2014, avrebbero contattato una larga fetta di consumatori per conto di diversi committenti. 

Così è molto probabile che i debitori, pur non conoscendo i nomi di tali società di recupero, siano stati comunque contattati dai loro operatori. Le fetta di vittime, insomma, è ampia e trasversale. 

In alcuni casi, i consumatori sono stati invitati a chiamare numerazioni a pagamento “per eventuali comunicazioni” o per “verifiche amministrative”, con un costo della telefonata piuttosto elevato (numerazione che, ora, è stata prontamente disattivata). Il settore del recupero crediti è particolarmente delicato, prestandosi a numerosi abusi da parte degli operatori. 

L’Agcm ha già adottato svariati provvedimenti sanzionatori contro pratiche scorrette ai danni dei consumatori per un totale di 600 mila euro di multe

Da ultimo, sono state individuate alcune società di recupero che erano solite inviare atti di citazione infondati (presso tribunali incompetenti per territorio) per cause minacciate ma mai iscritte a ruolo, solo al fine di “stimolare” il pagamento dei debitori (leggi l’articolo “Società di recupero crediti sanzionate: atti di citazione falsi”). 

Il consiglio ai consumatori è, dunque, quello di far sempre controllare, a un avvocato, le eventuali lettere di diffida ricevute. 

In ogni caso, ricordate che quando una società di recupero crediti eserciti indebite pressioni su di voi (per esempio: telefonando fuori dagli orari consentiti, fornendo comunicazioni riservate a terzi, chiedendo il pagamento di debiti scaduti, telefonando con frequenza superiore al dovuto, minacciando di azioni giudiziarie ed esecutive invece giuridicamente impossibili) potete farne denuncia all’Autorità Garante per il Mercato.

(fonte: www.laleggepertutti.it)

Come tutelare il conto corrente dal pignoramento: 5 consigli pratici

Dati alla mano, sono ormai pochi – pochissimi – gli italiani che non hanno un conto corrente personale. Anche in favore dei minori d’età si aprono spesso depositi postali o bancari: è finita l’era degli investimenti in sterline d’oro o in oggetti preziosi (sul presunto valore che gli stessi potrebbero conservare nel tempo e che, invece, molto spesso ha fatto registrare dei flop clamorosi, come il mercato delle opere d’arte) .

Il denaro è anche la ricchezza mobile più facilmente liquidabile in momenti di crisi come questo. Dunque, non stiamo a discutere: salvo il fatto che il materasso è stato sostituito dalla banca, per il resto il deposito resta l’àncora più sicura per il risparmiatore.

Tuttavia il conto corrente presta il fianco a diversi problemi. Il fisco, innanzitutto: che attraverso un monitoraggio quotidiano (reso possibile dall’Anagrafe tributaria e dall’Anagrafe dei conti) è in grado di sapere dove abbiamo il deposito, qual è il suo saldo e quali sono le movimentazioni in entrata e uscita. A non essere in grado di giustificare prelievi e versamenti si rischia l’imputazione degli stessi a ricavi in nero (evasione fiscale). Con conseguente applicazione di esose tasse e sanzioni. Chi ha subìto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate ne sa qualcosa.

Non è tutto. Il peggio è che il conto corrente è trasparente anche ai creditori. Ad Equitalia soprattutto, che può consultare le predette banche dati (le due Anagrafi) per avere un’idea di dove pignorare. Ma anche le banche ne sanno quanto una intelligence. E per i privati c’è sempre la carta delle agenzie investigative che qualcosa dal cilindro la tirano sempre fuori.

Una volta “scoperto”, il conto corrente è facilmente aggredibile con il cosiddetto pignoramento presso terzi, proprio come un’auto lasciata con le chiavi attaccate sul cruscotto.

Esistono degli espedienti che consentono di “salvare il salvabile” ed evitare, così, di perdere davvero tutto. Ovviamente questo articolo non è un’incitazione a frodare i creditori né tantomeno un invito a non pagare i debiti. Al di là, infatti, del titolo puramente provocatorio (poiché, alla fine, di persone che danno “consigli” su come frodare i creditori ce ne sono a bizzeffe), abbiamo piuttosto deciso di tracciare uno spaccato, a titolo informativo, dei “trucchetti” (formalmente leciti) usati spesso dagli italiani per poter sfuggire alle grinfie di Equitalia o di qualche banca.

Ed allora, vediamo cosa la pratica quotidiana ha registrato in questi anni.

1 | Chiedi l’apertura di credito e lascia il conto in rosso ma nei limiti del fido

Un conto in cui non c’è niente non può essere pignorato (questo è ovvio). Ma non può neanche essere utilizzato dal titolare. C’è però una via di mezzo che consente di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Con il contratto di apertura di credito (cosiddetto “fido”), il correntista ottiene dalla banca la possibilità di prelevare dal proprio conto, non solo le somme che vi ha depositato, ma anche una somma ulteriore che gli viene prestata di volta in volta dall’istituto di credito. In tal modo, il saldo resta formalmente “negativo”, ma è un debito autorizzato in anticipo dalla banca. L’importante è non sforare il limite concordato in contratto.

Per esempio: se il correntista ha un conto con una provvista di cinquecento euro e un fido di mille, può prelevare dal conto tutto ciò che vi ha depositato (500 euro, appunto) e, oltre a ciò, altre mille euro. Se non supera questo limite la banca non gli chiederà di rientrare nel debito (almeno finché dura il fido).

Ogni successivo versamento che il correntista riceverà sul conto andrà a ripristinare prima il fido scoperto con la banca e poi, eventualmente, la normale provvista, portando il saldo in “positivo”.

Dunque, se arriva un pignoramento in banca, il creditore non troverà alcunché da “bloccare”, nonostante il correntista abbia fino ad allora utilizzato liberamente il conto.

I problemi di questo sistema sono due:
a) normalmente l’apertura di credito viene concessa a chi ha un’attività commerciale o professionale o, comunque, offre idonee garanzie di solvibilità (il fido, infatti, è un prestito a tutti gli effetti);
b) qualora dovesse intervenire un pignoramento, non si potrebbe più utilizzare il fido, cosicché il conto sarebbe di fatto definitivamente bloccato.

2 | Preleva tutti i giorni dal conto

Nulla vieta di prelevare i soldi dal conto corrente – per esempio, quelli che vengono versati mensilmente dal datore di lavoro per lo stipendio o dall’Inps per la pensione – e poi depositarli in un altro conto, intestato questa volta a un familiare. In tal modo, il primo conto sarà sempre a saldo “0” e il pignoramento non troverà consistenze da pignorare.

Dall’altro lato, il secondo conto non potrà mai essere pignorato perché formalmente intestato a un altro soggetto.

I problemi di questo sistema due:
a) è sempre necessario redigere e firmare una scrittura privata (meglio se registrata) con il soggetto a cui è intestato il conto “beneficiario” dei versamenti: e ciò sia per evitare problemi con il fisco (che potrebbe chiedere al familiare da dove provengano tali redditi), sia per escludere che quest’ultimo, un giorno, rivendichi la proprietà delle somme;

b) portare a “0” il conto corrente non salverà i successivi versamenti del datore di lavoro o della pensione. Questi, infatti, verranno “bloccati” in automatico dalla banca non appena arriverà il pignoramento, in una misura pari alla somma pignorata (ossia il debito, le spese e gli interessi aumentati della metà: per esempio, per un debito complessivo di 500 euro si può pignorare il conto corrente per 750 euro, ossia 500 + ½ di 500).

3 | Cointesta il conto corrente con un familiare

Il conto corrente cointestato non può essere pignorato per intero, ma nei limiti del 50%. E questo è il primo indiscutibile vantaggio.

Inoltre, nel caso di conto cointestato, Equitalia non può attivarsi con la procedura “speciale” che le consente di bloccare il 100% conto senza passare dal tribunale e, quindi, senza l’udienza di assegnazione delle somme. Infatti, il conto bancario o postale cointestato rientra tra i cosiddetti “beni comuni indivisi” la cui espropriazione può avvenire solo davanti a un giudice il quale è tenuto a controllare la regolarità delle operazioni di divisione.

La diversità di disciplina si giustifica per il fatto che, se Equitalia procedesse secondo la normale riscossione esattoriale, finirebbe per pignorare l’intero conto, il cui 50%, però, appartiene a un soggetto diverso, che non è debitore.

Al contrario Equitalia deve provvedere secondo le norme del codice di procedura civile valide per tutti i pignoramenti presso terzi: ossia con citazione a un’udienza davanti al tribunale. La banca, prima dell’udienza, invierà una lettera al creditore in cui gli indicherà le somme presenti in conto.

A questo punto solo dopo la divisione del bene comune, ossia il conto corrente, il giudice potrà autorizzare l’assegnazione del 50% del conto (o della somma pignorata).

La Cassazione inoltre ha avuto più volte modo di chiarire che [1] nel conto corrente bancario cointestato a più persone, le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali – cioè al 50% – se non risulta diversamente.

4 | Apri un conto di riserva ma con un’altra banca

C’è ancora una via di salvezza. Avere un secondo conto consente, qualora intervenga un pignoramento su quello principale, di far affluire tutti i successivi pagamenti in quest’ultimo deposito, lasciando di fatto all’asciutto quello che è stato bloccato (meglio se, nel frattempo, è usata la precauzione numero 2).

È importante che il conto di emergenza sia instaurato con una seconda banca: infatti il pignoramento del conto viene notificato alla banca come soggetto unitario, invitandola a bloccare le somme presenti sul conto, qualsiasi esso sia, quindi ogni somma di denaro, crediti, corrispettivi, trattenute, conti correnti, depositi azionari ed obbligazioni, titoli di Stato e qualsivoglia altro bene fruttifero e non, intestato al debitore, fino alla concorrenza del credito pignorato.

5 | Dimostra che sul conto depositi solo lo stipendio o la pensione

Il tema è delicato e presuppone una premessa che ormai è a tutti nota. Con l’obbligo, imposto dalla legge, di accreditare le pensioni superiori a mille euro in un conto corrente, il creditore può arrivare a pignorare ben oltre il limite di un quinto (imposto dal codice civile): e ciò perché, secondo la giurisprudenza, una volta che le somme sono depositate in banca, confondendosi con gli altri risparmi e ricavi, possono essere pignorate al 100%.

Lo stesso discorso dicasi per gli stipendi, che ormai vanno pagati sempre con strumenti tracciabili e, quindi, di norma con accredito sul conto.

Per evitare, allora, che il creditore – massimamente Equitalia, che sa bene dove depositiamo i soldi – blocchi tutto lo stipendio (perché depositato in conto) e non solo il quinto (come invece dovrebbe essere), si deve evitare di movimentare il conto corrente con versamenti diversi da quelli della pensione o dello stipendio. Stando infatti a una sentenza del tribunale di Savona, si può impedire che Equitalia – o qualsiasi altro creditore – pignori tutto il conto corrente del pensionato o del dipendente qualora questi riesca a dimostrare al giudice che, all’attivo del conto, vi confluiscono solo la pensione o lo stipendio. In tal caso, è possibile far applicare la regola generale in base alla quale la pensione o lo stipendio non possono essere pignorati fino al minimo vitale (525,89 euro) e, per la residua parte, solo nei limiti di un quinto.


[1] Cass. sent. n. 4327 del 29.04.1999; Cass. sent. n. 8758/1993.

(fonte: www.laleggepertutti.it)

PHISHING: POSTE CONDANNATE PER MISURE DI SICUREZZA NON ADEGUATE

Il Tribunale di Firenze, con una sentenza dello scorso 20 maggio 2014, ha riconosciuto il diritto di Maria (ndf) alla restituzione della somma sottratta dal Suo conto corrente domiciliato presso Poste Italiane SpA da un terzo non conosciuto.

La storia è semplice: Maria torna da un viaggio e scopre che dal suo conto corrente (durante il suo viaggio) è stata prelevata una somma di poco inferiore a 6.000 euro.
Allarmata sporge regolare denuncia per frode informatica certa di non aver mai fornito a terzi le credenziali di accesso al proprio profilo on line della banca.

Il Tribunale, dopo circa tre anni, si pronuncia a pieno favore dell'utente bancaria e condanna Poste Italiane SpA ad accreditare l'importo, oltre agli interessi ed alla rivalutazione monetaria e a sopperire alle spese legali e del consulente tecnico nominato dal giudice per gli accertamenti informatici del caso.

Siete in tanti ad essere vittime di frodi simili a quella descritta.
In molti casi si legge, anche in quotidiani locali e nazionali, che la banca cerca stragiudizialmente di chiudere il contenzioso con il riaccredito di metà della somma sottratta.

Senza entrare nei specifici casi il consiglio della nostra associazione è: FATEVI AIUTARE DAL NOSTRO STAFF e CONTATTATECI

A.E.C.I. FELTRE
Associazione Europea Consumatori Indipendenti
via Boscariz 3b - 32032 FELTRE
Fisso 0439 3000 30 - mobile 347 7421260
feltre@euroconsumatori.eu

Avete il diritto della restituzione della piena somma sottratta, maggiorata di interessi e di rivalutazione.




giovedì 25 settembre 2014

Recupero crediti: cosa può fare la finanziaria se non ho nulla

Il credito derivante da un finanziamento si prescrive in 10 anni, salvo ovviamente che, nel corso di suddetto periodo, siano state spedite, all’indirizzo del debitore, lettere interruttive della prescrizione (ossia diffide di pagamento). Queste ultime devono essere state spedite con raccomandate a.r., poiché la posta semplice, non garantendo la prova della ricezione, non vale a interrompere la prescrizione. Anche un eventuale atto giudiziario (come un ricorso per decreto ingiuntivo, un atto di citazione o un atto di precetto) è sufficiente a interrompere la prescrizione. L’interruzione della prescrizione (conseguente a una diffida o alla notifica di un atto giudiziario) ha l’effetto di far ricominciare da capo il calcolo dei termini della prescrizione.

Per esempio: se il credito è sorto nel 2000 e Lei ha ricevuto, nel 2005, una richiesta di pagamento con raccomandata a.r., la prescrizione del diritto non maturerà nel 2010, ma nel 2015.

Pertanto, per verificare se il creditore abbia o meno ancora diritto al recupero del credito sarebbe opportuno sapere in che data doveva essere restituito il finanziamento (è, infatti, da tale momento che cominciano a decorrere i 10 anni) e se, in tale periodo, Le sono stati notificati atti interruttivi della prescrizione.

Fatta questa opportuna precisazione, e fermo restando che il codice civile impone al debitore di adempiere alle obbligazioni contratte, è anche vero che, così come dicevano i latini, “nemo ad impossibilia tenetur” ossia: “nessuno può essere tenuto ad adempiere ad una obbligazione se non ha le possibilità economiche per farlo”. In altre parole, l’unica via che il creditore ha per recuperare il proprio denaro è quello di aggredire il patrimonio del debitore attraverso il pignoramento.

Vien da sé che se il debitore non ha un patrimonio o redditi, anche il pignoramento non sortirà risultati utili. La conseguenza – in termini pratici – è che, molto probabilmente, il creditore – dopo qualche tentativo risultato infruttuoso – rinuncerà al proprio credito (nessuna società – neanche una banca – ha soldi da perdere in procedure esecutive che non danno risultati).

Per quanto riguarda le Sue consistenze patrimoniali, è bene avvisarLa che qualsiasi reddito da lavoro dipendente può essere pignorato, ma nella misura massima di un quinto, ivi compreso quanto da Lei percepito, sebbene saltuariamente.

È pignorabile anche l’eventuale conto corrente nella sua interezza, ma in misura non superiore all’importo del debito contratto, a cui vanno aggiunte le spese legali e gli interessi. Il pignoramento potrebbe essere anche immobiliare (qualora Lei dovesse risultare titolare di immobili).

In ultimo – lo diciamo solo per completezza di consulenza, ma pur sempre augurandoLe lunga vita – qualora Lei dovesse decedere, i Suoi debiti non prescritti passerebbero automaticamente agli eredi, i quali ne risponderebbero integralmente con il proprio patrimonio (oppure, in caso di “accettazione dell’eredità con beneficio di inventario”, nei limiti del valore di quanto ereditato).

In estrema sintesi, la posizione di un nullatenente è – paradossalmente – più “favorevole” rispetto a chi detiene redditi, poiché è molto probabile che, nei Suoi confronti, alle continue insistenze dei call center di recupero crediti, non facciano seguito poi effettive azioni esecutive o giudiziarie.

Il consiglio, comunque, fermo restando il rischio del pignoramento di un quinto dello stipendio, è quello di scrivere sia alla società di recupero crediti (l’ultima che Le ha chiamato) sia, soprattutto, al creditore, rappresentando la Sua situazione patrimoniale ed economica (eventualmente allegando documentazione utile a provare quanto sopra) e invitando entrambi a desistere da ogni azione, poiché altrimenti risulterebbe solo un inutile spreco di tempo e di risorse economiche.

(www.laleggepertutti.it)

Se l’assicurato si costituisce in causa l’assicurazione gli paga le spese legali

Hai avuto un sinistro stradale e l’altro conducente danneggiato – che nel frattempo si è rivolto alla propria assicurazione per avere il risarcimento senza però ottenere soddisfazione – ti ha citato in causa? Non devi preoccuparti per due ragioni: la prima è che, comunque, quella citazione è un “atto dovuto” (la legge, infatti, prescrive che la causa si debba fare in presenza, non solo dell’assicurazione, ma anche del proprietario del mezzo); la seconda è che, se decidi di partecipare al giudizio (se proprio vuoi far sentire “la tua”), le spese processuali ti saranno rimborsate dall’assicurazione.

È questa la sintesi di una recente sentenza della Cassazione [1].

Secondo la Suprema Corte, infatti, in materia di responsabilità civile rc auto, la costituzione in causa dell’assicurato, poiché effettuata (anche) nell’interesse dell’assicuratore (il quale, in definitiva, è colui che dovrà pagare), comporta che l’assicurazione sopporti le spese legali sostenute dall’assicurato nei limiti di un quarto della somma assicurata (cosiddetto massimale) [2].
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Ricordiamo infatti che lo scopo dell’assicurazione obbligatoria rc auto è di mantenere indenne l’assicurato dall’obbligo di risarcire i danni subiti da terzi per il caso di responsabilità alla guida. Per queste ragioni, obbligo della compagnia assicuratrice è di manlevare l’assicurato di qualsiasi spesa da ciò derivante, ivi comprese i costi da questi sostenuti per difendersi in giudizio.

Che significa in pratica? Mettiamo che Tizio, danneggiato da un incidente stradale, dopo aver chiesto alla propria compagnia il risarcimento ed essersi visto opporre un secco rifiuto, inizi una causa contro la compagnia stessa, citando – così impone la legge – anche Caio, proprietario del mezzo responsabile. Il giudice, al termine del giudizio, emette la sentenza in cui condanna l’assicurazione a risarcire Tizio e, insieme, ordina a quest’ultima e, insieme, a Caio di pagare 1000 euro ciascuno a Tizio come rimborso delle spese legali da quest’ultimo sostenute. Ebbene, Caio potrà chiedere alla propria assicurazione di pagare per lui tali spese processuali, poiché anche questo è un effetto della polizza rc auto contratta annualmente dagli assicurati (ed obbligatoria per legge). Tale responsabilità dell’assicuratore trova il solo limite di un quarto del massimale assicurato.

Non solo! Anche nel caso in cui il giudizio si concluda senza riconoscimento del danno (nell’esempio di prima, qualora Tizio non vinca la causa) l’assicuratore risulta comunque tenuto a sopportare le spese di lite sostenute da proprio assicurato (Caio) per pagare il proprio avvocato.

A tale proposito, i giudici evidenziano come la costituzione dell’assicurato in giudizio sia tesa a coadiuvare l’azione difensiva della propria compagnia chiamata in causa, con il fine di procedere all’accertamento dell’obbligo d’indennizzo.

[1] Cass. sent. n. 19176/14 dell’11.09.2014. Cfr. anche Cass. sent. n. 5300/2008 e Cass. Civ. sent. n. 2227/1977.
[2] Art. 1917 cod. civ.

(fonti: www.laleggepertutti.it)

Equitalia: preavviso obbligato prima di ipoteca, fermo o altri atti

Una sentenza davvero importante quella uscita qualche giorno fa dal massimo consesso della Corte di Cassazione [1]. Le Sezioni Unite, infatti, ponendo fine a un annoso dibattito, hanno stabilito che, anche in assenza di una norma di legge specifica, sussiste sempre l’obbligo per Equitalia o qualsiasi altro organo dell’amministrazione finanziaria di inviare al contribuente un previo avviso prima di notificargli qualsiasi atto di riscossione che possa pregiudicare i suoi diritti o compromettere i suoi beni: preavviso che avrà quindi la funzione di mettere il destinatario nella condizione di regolarizzarsi subito (evitando maggiori danni) oppure (in caso di attività illegittima) ricorrere al giudice per tempo.

Insomma, non c’è bisogno di andare a cercare tra leggi e leggine, commi, testi unici, decreti, interpretazioni autentiche o sentenze dei tribunali: se anche non c’è nulla che stabilisca l’obbligo del previo avviso, quest’ultimo si argomenta dai principi generali del nostro ordinamento e, in particolare, dalle norme dello Statuto del contribuente e dalla legge sul procedimento amministrativo [2]: tali principi, infatti, prevedono un obbligo generalizzato di comunicazione dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari.

Sul piano pratico, questo comporta che Equitalia deve – e, soprattutto, “doveva” anche prima delle recenti e più garantistiche norme di riforma sulla riscossione esattoriale [3] – comunicare in anticipo al contribuente l’imminente iscrizione di ipoteca. Stesso discorso per il fermo amministrativo.

Insomma, cercate bene nei vostri cassetti, tra i faldoni e negli archivi: perché se avete una procedura in corso, un’espropriazione anche se avviata ormai da anni o il fermo dell’auto, e non trovate alcun avviso preventivo notificatovi prima della misura stessa, ma solo la lettera con cui Equitalia vi comunica che è stato già iscritto il fermo o l’ipoteca (quando, insomma, già è troppo tardi) potete ricorrere al giudice citando la sentenza della Cassazione di giovedì scorso [1].

In una fattispecie riferita solo all’ipoteca (ma che, in via estensiva, può applicarsi a qualsiasi altro atto limitativo dei diritti del contribuente), la Suprema Corte ha stabilito che, anche nel regime antecedente l’entrata in vigore del Decreto Sviluppo (che ha esplicitato l’obbligo del previo avviso di iscrizione del peso sulla casa [3]), l’amministrazione, prima di iscrivere ipoteca, deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine di almeno 30 giorni perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto.

In passato, la stessa Cassazione [4] si era espressa in senso diametralmente opposto: ossia che l’ipoteca [5] può essere iscritta senza la previa notifica dell’intimazione ad adempiere (visto che l’iscrizione ipotecaria non può essere considerata già una espropriazione forzata, ma solo una garanzia di prelazione per il creditore).

Ancora la Corte aveva anche affermato che se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica di un avviso contenente l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni, ma il previo avviso non è necessario per procedere all’iscrizione ipotecaria.

Il cambiamento e le conseguenze

Insomma, nulla faceva pensare che i giudici sarebbero giunti all’approdo recente: un’interpretazione che ha sostanzialmente cambiato le carte in tavola. Le ha cambiate soprattutto per tutte quelle procedure di espropriazione della casa in corso, anche se già all’asta pubblica, che si erano basate sulle vecchie regole e le passate interpretazioni. Così il rischio di una “valanga” di ricorsi, a travolgere i pignoramenti immobiliari di Equitalia, è dietro l’angolo.

Ricordiamo peraltro che l’ormai famoso Decreto del Fare ha cambiato radicalmente le regole sull’espropriazione della prima casa da parte dell’Agente per la riscossione. Per non dilungarci in questo articolo, con riferimento alle nuove regole rinviamo all’articolo: “Pignoramenti: prima casa no, ma il rischio ipoteca resta” e “Ipoteca di Equitalia: da quale cifra scatta?”.

In conclusione, stante l’obbligo di comunicazione al contribuente, l’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla stessa deve ritenersi nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale” tra amministrazione e contribuente, mediante la preventiva comunicazione a quest’ultimo della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo. Al riguardo, però, le Sezioni Unite non mancando di rilevare che, in ragione della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità. In altre parole, è sempre necessario “entrare” in tribunale, coinvolgere un giudice e cominciare una causa. La cancellazione, infatti, dell’ipoteca non potrà essere ottenuta facilmente con “le buone”.

Il confronto col fermo amministrativo dell’auto

Le Sezioni Unite si sono spinte oltre, non limitando il discorso solo all’ipoteca. Al contrario hanno rilevato la sostanziale equiparabilità della situazione normativa dell’iscrizione di ipoteca a quella del fermo amministrativo di beni mobili registrati [6].

E, come per il preavviso di fermo, anche il preavviso di ipoteca deve ritenersi un atto impugnabile in modo autonomo (leggi: “Equitalia: preavviso di fermo impugnabile”).

Nessun dubbio, peraltro, vi è ormai che anche la stessa successiva comunicazione di iscrizione di ipoteca, come quella del fermo, deve ritenersi un atto impugnabile in modo autonomo.



[1] Cass. S.U. sent. n. 19667/14 del 18.09.2014.
[2] Art. 21 bis L. 241/1990.
[3] Comma 2-bis dell’art. 77, d.P.R., introdotto con d.l. n. 70 del 2011, c.d. Decreto Sviluppo.
[4] Cass. sent. n. 10234/2012.
[5] Di cui all’art. 50, comma 2, d.p.r. n. 602/1973, prescritta per il caso che l’espropriazione forzata non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento.
[6] Di cui all’art. 86, d.p.r. n. 602/1973.

(fonte: www.laleggepertutti.it - articolo di redazione)

Amministratore di condominio: responsabilità e compiti

Alla carica di amministratore di condominio sono legate tutta una serie di possibili conseguenze, sia in ambito di responsabilità civile (verso terzi o verso gli stessi condomini) che in ambito di responsabilità penale.

Tali possibili conseguenze sono via via cresciute nel tempo, di pari passo con il costante evolversi della figura dell’amministratore così come chiarito dalla Corte di cassazione con due successive decisioni: la prima [1] che, nell’ammettere in via definitiva la possibilità di affidare l’amministrazione condominiale a persone giuridiche si è basata sulla constatazione che “da qualche tempo l’incarico viene conferito a professionisti esperti in materia di condominio e in grado di assolvere alle numerose e gravi responsabilità ascritte all’amministratore dalle leggi speciali”, e la seconda [2] che ha fissato i canoni della responsabilità personale dell’amministratore nel modo che segue: “A tale figura il codice civile e le leggi speciali imputano doveri ed obblighi finalizzati ad impedire che il modo di essere dei beni condominiali provochi danni a terzi. In relazione a tali beni l’amministratore, in quanto ha poteri e doveri di controllo e poteri di influire sul loro modo di essere, si trova nella posizione di custode (…). Questi allora deve curare che i beni comuni non arrechino danni agli stessi condomini o a terzi, come del resto riconosciuto dalla giurisprudenza allorchè ha considerato l’amministratore del condominio responsabile dei danni cagionati dalla sua negligenza, dal cattivo uso dei suoi poteri e, in genere, di qualsiasi inadempimento dei suoi obblighi legali o regolamentari”.

Da tale nuovo inquadramento corrisponde ora un quadro in cui la fonte di responsabilità dell’amministratore nei confronti dei condòmini è il contratto di mandato conferito al momento dell’accettazione dell’incarico: qualora anche senza colpa grave (essendo l’incarico non gratuito) l’amministratore, nel venir meno ai propri obblighi contrattuali, causi un danno ai condòmini, ne dovrà rispondere personalmente.

Per esempio, quando non abbia eseguito una delibera assembleare [3], se da tale omissione sia derivato un danno ai condòmini, oppure per aver eseguito una delibera che non andava eseguita in quanto contraria alla legge.

Per “salvarsi” da azioni personali di responsabilità che i condòmini gli possono rivolgere, in sostanza, l’amministratore deve esercitare il proprio mandato nel pieno rispetto delle norme di legge, ponendo particolare attenzione nel rimuovere prontamente le situazioni pericolose, relative alle parti comuni dell’edificio, dalle quali potrebbe derivare un danno a terzi (o agli stessi condòmini).

Si pensi alla domanda proposta dai genitori di un minore direttamente nei confronti dell’amministratore per la presenza nel cortile condominiale “all’altezza di un metro dal piano di calpestio, di vetri con la superficie tagliente che costituivano una pericolosissima insidia” [4].

Così, un amministratore condominiale è stato ritenuto personalmente responsabile, nei confronti del terzo danneggiato [5] dai danni derivati “dalla negligente omissione delle necessarie riparazioni al lastrico solare decise in delibera assembleare e non attuate dall’amministratore”.

Da ultimo, il nostro Codice penale non prevede una figura di reato propria dell’amministratore di condominio: a lui tuttavia possono riferirsi una serie di fattispecie penali relative alla attività svolta. È il caso, per esempio del reato di ingiurie o di diffamazione, del quale è stato ritenuto colpevole l’amministratore che aveva inviato a tutti i condòmini una lettera ove veniva evidenziata la morosità di uno di loro.

Altro reato nel quale può imbattersi l’amministratore, in quanto custode del bene condominiale, è quello che sanziona il proprietario di un edifico o di una costruzione “ovvero chi per lui è obbligato alla conservazione o alla vigilanza” che “ometta di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo” [6].

Come è accaduto [7] per una condanna per lesioni colpose gravi causate a un cliente della farmacia posta nello stabile condominiale dall’omesso livellamento della pavimentazione.

Da ultimo, si segnala la recente sentenza della Cassazione [8] che ha ritenuto penalmente responsabile l’amministratore di condominio che a incarico finito, nonostante l’ordine in tal senso del Tribunale, non aveva consegnato al nuovo amministratore i conti e le carte condominiali.

[1] Cass. sent. n. 22840/2006. 
[2] Cass. sent. n. 25251/2008. 
[3] Cass. sent. n. 7103/2013. 
[4] Cass. sent. n. 24804/2008. 
[5] Cass. sent. n. 25251/2008. 
[6] Art. 677 cod. pen. 
[7] Cass. sent. n. 34147/2012 
[8] Cass. sent. n. 31192/2014

(fonte: www.laleggepertutti.it) 

martedì 23 settembre 2014

TASSI DI USURA? "ULTERIORI INDAGINI"

"IL GAZZETTINO" - 23 settembre 2014

Proponiamo l'articolo uscito stamane su "Il Gazzettino" a firma di Olivia Bonetti.

Ringraziamo il Direttore de "Il Gazzettino" 
per aver dato spazio e voce alle battaglie 
di alcuni dei nostri tesserati!!

Siete in molti ad esservi rivolti alla nostra associazione per farvi tutelare anche in controversie in materia bancaria, non solo nella nostra provincia.
Vogliamo ribadire a tutti la nostra piena disponibilità ad assistere i consumatori, utenti bancari, nelle controversie che li vede essere indifesi protagonisti contro un sistema che, talvolta, sembra essere inattaccabile.

Lo staff della nostra Associazione rimane a Vostra piena disposizione per dare forza e voce a tutti quei consumatori ed agli utenti bancari che si sentono troppo spesso disorientati e sopraffatti da un sistema bancario che, oltre che manifestarsi talvolta in comportamenti contrari alle norme, peccano in provvedimenti e/o atteggiamenti che spesso non tengono in dovuta considerazione le situazione soggettive e personali dei propri clienti.

A.E.C.I FELTRE
ASSOCIAZIONE EUROPEA CONSUMATORI INDIPENDENTI FELTRE
Via Boscariz n. 3b - FELTRE (BELLUNO)
telefono 0439 3000 30 - mobile 347 74 21 260
fax 0439 1998108 - feltre@euroconsuamtori.eu




lunedì 22 settembre 2014

Usura sul mutuo: denunciata la banca.

Un lavoratore vede cambiare le condizioni e chiama la Finanza: l’accusa vorrebbe archiviare ma il legale si oppone

BELLUNO. Usura. La procura della repubblica vorrebbe archiviare l’inchiesta su un mutuo per la casa acceso a uno sportello di Banca 24/7, ma l’avvocato Davide Fent e l’Associazione europea consumatori indipendenti di Feltre hanno impugnato la richiesta di archiviazione. La parola passa al giudice per le indagini preliminari Vincenzo Sgubbi, ma ci sarebbero altri due casi più o meno uguali, sotto il martelletto del collega Giorgio Cozzarini.
Sette anni fa, un lavoratore dipendente feltrino aveva chiesto un finanziamento di 18 mila euro per una durata di sei anni e avrebbe dovuto saldare il suo debito in rate mensili da 250 euro, che significa un quarto dello stipendio. Non ha una grande disponibilità economica e può darsi che ne avesse girate anche altre di banca, prima di affidarsi a quella, che gli ha dato dei problemi.
Banca 24/7 Spa ha sede a Bergamo, è rappresentata da Ktesios Spa di Roma e il prodotto finanziario è trattato dall’agente di Opera Int.Fin srl, che ha la propria sede legale a Pordenone. Un paio d’anni dopo, l’uomo perde il lavoro, salvo poi trovarne un altro, a poca distanza di tempo. Non è un problema da poco, quando c’è in piedi un debito e i guadagni sono quelli che sono. L’altro evento che scatena il problema è la fusione di Banca 24/7 in Ubi Banca, di conseguenza cambia tutto. Un anno fa, il contraente bellunese si accorge che le condizioni sono molto più pesanti e allora chiede in prima battuta un parere tecnico e in seconda una consulenza più approfondita a uno studio vicentino.
Scatta una denuncia per usura al comando della Guardia di finanza. L’uomo chiede di essere tutelato dall’avvocato Fent ed elegge come domicilio la sede dell’Associazione europea consumatori indipendenti di Pedavena. Non sarà un’associazione conosciutissima, ma serve in situazioni come questa. Nel maggio di quest’anno, il pubblico ministero presenta una richiesta di archiviazione, sulla base del fatto che non emergerebbero responsabilità penali. Ma il legale feltrino risponde con un’opposizione alla richiesta formulata dall’accusa, chiedendo la prosecuzione delle indagini al pubblico ministero e al giudice di respingere la richiesta della procura. C’è stata anche una consulenza da parte di un perito, che però viene contestata. Anche per questo, le indagini non possono essere considerate esaurienti e ce ne vogliono delle altre, che non coinvolgano soltanto i documenti prodotti dalla Guardia di finanza e già spillati alla denuncia, ma anche altri documenti utili a chiarire la vicenda. Bisognerà capire se si tratta davvero di usura o no. Tocca proprio a Sgubbi accettare o meno la richiesta di opposizione all’archiviazione, oppure considerare chiusa la vicenda, una volta per tutte, seguendo l’indicazione dell’accusa.

(articolo di GIGI SOSSO del 21 settembre 2014 su IL CORRIERE DELLE ALPI)

giovedì 18 settembre 2014

CESSIONI DEL QUINTO - ESTINZIONE DEL FINANZIAMENTO: NUOVO SUCCESSO PER LA NOSTRA ASSOCIAZIONE.

Arriva oggi la comunicazione di un nuovo lodo che riconosce il diritto a Davide (ndf), nostro tesserato, di restituzione di una somma non poco inferiore ai 1.500,00 euro da parte di una nota finanziaria nazionale.

Davide aveva stipulato un finanziamento estinguibile mediante cessione del quinto dello stipendio agli inizi del 2008. Il suo prodotto aveva una durata naturale di 10 anni ma lui lo ha estinto dopo soli quattro anni ricorrendo ad un nuovo finanziamento sempre estinguibile mediante la cessione del quinto dello stipendio.

Nella determinazione del conteggio estintivo la finanziaria aveva "dimenticato" di restituire quota dei costi sostenuti al momento della stipula del contratto  relativi all'intera durata dello stesso.

Lo staff ed i consulenti della nostra associazione lo aveva seguito nello stragiudiziale e già lo scorso aprile aveva aiutato Davide a recuperare oltre 2.600,00 euro.

Poi una risposta poco adeguata della finanziaria ci aveva stimolato a non demordere e continuare nella nostra richiesta.

Oggi è arrivato il riconoscimento del diritto per il nostro tesserato: a lui ulteriori 1.500 euro.

Niente male se pensiamo che Davide ha recuperato complessivamente oltre 4.000 euro.

Se vi trovate nella posizione di aver estinto una cessione contattate il nostro staff e chiedete una valutazione (gratuita per i nostri tesserati) del Vostro prodotto ai nostri consulenti.


venerdì 12 settembre 2014

Debiti del condominio: ripartirli tra i condomini adempienti

Su www.laleggepertutti.it si è già parlato di cosa succede se un condomino è moroso nel pagamento degli oneri condominiali, quali poteri ha l’amministratore e, soprattutto, della possibilità di interrompere l’erogazione di servizi essenziali come la luce, l’acqua e il gas in caso di mancato pagamento oltre i sei mesi (si legga: “Chi non versa le spese condominiali: utenza sospesa?”). Ma l’iter per la riscossione delle somme non pagate può essere, a volte, assai lungo e, soprattutto, costoso. Così il gioco potrebbe non valere la candela. Altre volte i condomini non trovano l’accordo prima di procedere a pignorare la casa o a svolgere altre “azioni forti” contro l’inadempiente.

Dunque, per far fronte ai creditori del condominio, ed evitare la sospensione dei servizi comuni essenziali (vedi, per esempio, il gas), si potrebbe pensare a ripartire la perdita tra gli altri condomini che, pur tuttavia, hanno già pagato regolarmente la loro quota mensile.

Ebbene questa possibilità è interdetta all’amministratore: in altre parole quest’ultimo non può ripartire tra i condomini in regola coi pagamenti degli oneri condominiali l’importo delle spese arretrate ancora a debito. Lo potrebbe fare solo qualora vi sia la votazione all’unanimità dei condomini. Si tratterebbe, infatti, in questo caso di un’auto tassazione volontaria, che non potrebbe essere contestabile.

A quest’ultima spiaggia si approda anche nel caso in cui il condomino debitore sia nullatenente (per esempio, perché il suo appartamento è già ipotecato da una banca, non ha redditi o pensioni da attaccare) e i creditori, allora, decidono di rivalersi contro un condomino “innocente”, minacciandolo di pignorargli l’appartamento o di tagliare i servizi a tutto il condominio.

Solo in ipotesi come questa, dopo aver tentato tutte le strade, non resta che costituire un fondo cassa per ridistribuire il debito. Per far questo, però, è necessario ancora una volta che l’assemblea approvi la decisione all’unanimità.

Per suddividere correttamente la cifra (dal calcolo saranno esclusi i morosi), bisognerà tener conto dei diversi criteri che la legge prevede per la spartizione di quella spesa (a seconda dei casi, bisognerà calcolare una suddivisione per millesimi, per consumo, per persona, ecc.)

fonte: www.laleggepertutti.it

Condominio, dispetti tra vicini: quando è reato

I dispetti tra vicini sono molto frequenti nei condomini italiani e spesso non sono altro che la prosecuzione delle note liti in assemblea. Attenzione però, perché quando un certo comportamento diventa petulante o addirittura persecutorio, si rischia la condanna penale.

Una recente sentenza della Cassazione [Cass. sent. n. 31622 del 17.07.2014] ha chiarito il confine tra dispetti “tollerabili” e reato.

Secondo i giudici la condotta di chi disturba il vicino può costituire reato di molestie [Art. 660 cod. pen] solo quando è petulante, ripetuta nel tempo e non si esaurisce in episodi isolati.

Nel caso in esame la Corte ha ritenuto illegittima la condanna per molestie di una donna che, con la cadenza di una volta all’anno, aveva dato fastidio alla vicina di casa.

Affinché si possa parlare di molestie è necessaria una certa costanza e abitualità negli atteggiamenti dispettosi, per cui non sono punibili episodi isolati nonostante essi siano stati poco gradevoli per la vittima (per esempio sporcare di proposito il suo terrazzo o spiarla).

In alcuni casi i dispetti possono integrare il reato di stalking. Ciò avviene quando si tratta di condotte (molestie o minacce) tali da ingenerare uno stato di ansia e pressione psicologica della vittima che si sente perseguitata dal vicino di casa.

Non sono state rare ultimamente le pronunce dei tribunali in tema di stalking condominiale: si tratta di atti persecutori posti in essere da un condomino a danno di uno o più condomini o addirittura di tutti gli abitanti dello stabile.

In questi casi, quando gli atti persecutori sono tali da mettere in pericolo l’incolumità di una o più persone, il giudice può disporre la misura cautelare dell’allontanamento del colpevole dall’edificio condominiale.

(fonte: www.laleggepertutti.it)

Pignorabili integralmente pensione o stipendio versati sul conto corrente

Il limiti che la legge impone al pignoramento della pensione o dello stipendio non operano una volta che tali somme vengono versate sul conto corrente bancario. 
Da quel momento, infatti, detti proventi possono essere pignoranti integralmente. 
Come noto, la legge stabilisce un tetto massimo alla pignorabilità di pensioni e stipendi. 
Ma tale tetto vale solo quando tale procedimento viene fatto prima che le somme siano materialmente erogate al beneficiario: ossia quando il pignoramento è notificato direttamente al datore di lavoro o all’istituto di previdenza (Inps, per esempio). 

 Tale limite è, in generale, di un quinto. Se però il creditore è lo Stato (e, per esso, Equitalia S.p.A.), il limite è così scaglianato: 
- un decimo, per retribuzioni/pensioni di importi da 0 a 2.500 euro; 
- un settimo, per retribuzioni/pensioni di importi da 2.500 euro a 5.000 euro; 
- un quinto, per retribuzioni/pensioni di importi da 5.000 in su. 

Tanto per fare un esempio, se una banca, creditrice di un proprio correntista, intende pignorare a quest’ultimo lo stipendio e notifica l’atto al suo datore di lavoro, tutte le mensilità successive al pignoramento verranno erogate con il 20% in meno del reddito. 

Tali limiti al pignoramento, però, non operano più se le somme vengono depositate dal lavoratore/pensionato sul proprio conto. Sul conto corrente, le somme sono pignorabili al 100%.

È quanto ha avuto modo di ricordare, con una recente sentenza, il Tribunale di Napoli [Trib. Napoli, sent. del 28.05.2013]. 

Quella in commento è una decisione che segue un orientamento ormai costante in giurisprudenza. 

Secondo tale interpretazione, infatti, al momento del versamento della somma sul conto corrente, cessa il rapporto tra lavoratore/pensionato e l’ente pagatore. Al suo posto, nasce un rapporto completamente nuovo, quello tra banca e correntista, che non è soggetto ai limiti di pignorabilità previsti per il reddito o la pensione, e pertanto non subisce neanche i limiti alla pignorabilità.


Fonte: www.laleggepertutti.it