L’esprimere giudizi, anche forti, nei confronti di una persona, confidandoli però ad un terzo, senza che altri o la vittima possano sentirli, non è considerato dalla legge un reato.
Se il messaggio è rivolto ad almeno due persone – anche se non presenti contestualmente – si ha il reato di diffamazione (per es.: Tizio discute con Caio e Sempronio, parlando male di Muzio).
Se invece il messaggio è trasmesso alla presenza del soggetto interessato, allora si haingiuria (per es.: Tizio parla con Caio e, durante la discussione, gli rivolge una serie di insulti).
Se infine Tizio discute con Caio e, nel corso della discussione, parla male di Sempronio, e Sempronio non è presente o comunque non sente, egli non commette alcun reato.
Mettiamo però che Sempronio riesca casualmente a percepire l’offesa. Così è successo nel caso sottoposto all’attenzione del Giudice di Pace di Brindisi [1]: una persona parlava male del collega di lavoro ad un altro collega e, proprio mentre pronunciava l’offesa, l’interessato si è affacciato nella stanza, percependo tutto il discorso.
Ebbene, il dubbio è se questa espressione, pur se non rivolta al destinatario, possa essere considerata una “ingiuria” e quindi costituisca reato.
L’interpretazione data dal Giudice di Pace di Brindisi [1] è nel senso di punire l’incauto irriverente che non aveva “chiuso la porta”.
Insomma: “in camera caritatis” tutto è consentito. Ma guai se i muri hanno orecchie.
[1] G.d.P. Brindisi, sent. n. 110/2012.
(articolo di redazione del 13dicembre2012 di www.laleggepertutti.it)
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