lunedì 21 ottobre 2013

“Malasanità”: la colpa grave del medico rimane reato

Il medico che commetta un errore frutto di colpa grave nell’esercizio della propria professione e che, con questo, causi un danno alla salute, se non proprio alla stessa vita, di un suo paziente continua ad essere punibile anche in sede penale, nonostante il cosiddetto “Decreto Balduzzi”, che era intervenuto con un importante, anche se controverso, intervento di riforma in questa materia.

Lo ha ribadito una recente sentenza della Cassazione.

Ma andiamo con ordine, partendo proprio dalla novità normativa introdotta ormai più di un anno fa nel nostro ordinamento relativo ai criteri di individuazione della responsabilità penale dei professionisti della scienza medica.

Nel decreto si legge che il sanitario che, nello svolgimento della propria attività, si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve [1]. In questi casi, conclude la norma, resta comunque fermo l’obbligo di risarcimento del danno.

La prima puntualizzazione che si deve operare in ordine a questa previsione di legge è quella tra responsabilità penale e responsabilità civile: entrambe sono le conseguenze di un fatto illecito che derivano all’autore di quest’ultimo, ma la prima è quella che nasce nei confronti dello Stato, in quanto espressione e garante della comunità nel suo complesso. Questa forma di responsabilità viene sanzionata con una pena. La responsabilità civile, invece, si genera (sempre da un fatto illecito) nei confronti di un singolo soggetto o di un gruppo ben individuato di soggetti e comporta “solo” l’obbligo di risarcire i danni causati a quegli stessi soggetti.

Di regola (ma è una regola che prevede ampie deroghe), da un illecito penale (reato) nascono sia la responsabilità penale (che comporta la pena, detentiva o pecuniaria, per l’autore del fatto) che la responsabilità civile (che implica il risarcimento del reato causato ai danneggiati dal reato).

Per tornare agli effetti concreti del “Decreto Balduzzi” in questa materia, il primo importante provvedimento giudiziario scaturito dalla nuova legge è del gennaio scorso: i giudici della Suprema Corte hanno annullato una sentenza di condanna di un medico imputato dell’omicidio doloso in danno di un suo paziente proprio perché era emerso nel dibattimento che egli, nell’apprestare l’assistenza sanitaria allo stesso ammalato, aveva aderito ai protocolli medici vigenti e, nel complesso, la sua colpa era stata ritenuta lieve [2].

Qualche settimana fa, sempre di fronte alla Suprema Corte di Cassazione, la questione si è riproposta, almeno nei motivi dell’appello redatti dal difensore del medico condannato, il quale, pure lui, ha eccepito che il proprio assistito non potesse esser condannato dopo l’entrata in vigore della norma sopra riportata del decreto Balduzzi e che, dunque, la condanna d’appello del professionista andasse annullata.

La Corte, invece, stavolta ha ampiamente avallato l’operato dei giudici di secondo grado, confermando la sentenza di condanna del sanitario giacché è stata riconosciuta la sua colpa grave e, dunque, l’inoperatività delle disposizioni del “Decreto Balduzzi” decisamente più favorevoli ai medici [3].

Alcune considerazioni di natura pratica che scaturiscono da questa vicenda.

In via “preventiva”, i medici dovranno prestare particolare attenzione all’esistenza di protocolli validati nello specifico campo terapeutico nel quale siano impegnati.

Ciò non vuol dire affatto che gli stessi sanitari siano obbligati ad adeguarvisi, rimanendo, invece, in capo a loro un’ampia e insopprimibile discrezionalità nella scelta della cura da proporre ad un paziente.

Significa, però, che il professionista potrà decidere di non aderire ai protocolli solo all’esito di uno studio approfondito del caso a lui affidato e delle sue peculiarità. Studio sulla base del quale il medico potrà ritenere, eventualmente non adeguate le linee guida alla specifica situazione clinica della persona che egli abbia in cura.

Quando, invece, l’evento lesivo del paziente si sia già verificato, allora i protocolli svolgeranno il ruolo di stella polare nel percorso che dovrà portare all’accertamento dell’eventuale responsabilità penale del medico nei confronti di quella lesione (o addirittura di quella morte).

Anche in questo caso, senza alcun automatismo, per così dire.

Sia nel senso che, per le ragioni sopra ricordate, il medico che non si sia attenuto ai protocolli potrà sempre esporre a sua discolpa le ragioni di questa scelta; e, se le giustificazioni saranno ritenute valide dal giudice, il sanitario dovrà esser mandato assolto, sempre che egli non sia incorso in un errore derivante da colpa grave.

Sia, all’opposto, nel senso che non potrà ammettersi neanche che un’acritica adesione del sanitario alle linee guida, a prescindere da una completa e accurata analisi del caso clinico nelle sue mani, debba costituire per forza ragione di un’assoluzione.

In conclusiva sintesi, le regole di diligenza professionale di un medico non possono esser scritte in “tavole della legge” che si applichino automaticamente ad una patologia; esse devono, invece, basarsi anzitutto sulla doverose conoscenze da parte del medico delle linee guida e delle migliori pratiche in un determinato ambito medico – clinico e sulla consapevole applicazione delle stesse alla persona – paziente nel suo complesso.

Perché, sembra ricordare la Cassazione, si cura una persona, per l’appunto, non solo una patologia.

[1] D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. n. 189 del 2012:
[2] Cass. sent. n. 16237 del 29.01.2013.

[Articolo dell'Avv.to PALMISANO pubblicata su www.laleggeperutti.it]

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